A 30 anni dall’uccisione per mano della camorra del sacerdote Don Giuseppe Diana, anche il nostro giornale si sofferma sulla figura di un insigne testimone del vangelo.
19 marzo 1994: festa di San Giuseppe. A Casal di Principe, nel casertano, un giovane sacerdote di 35 anni che dello sposo di Maria porta il nome alle sette e venti del mattino si trova nella sagrestia della chiesa di San Nicola di Bari di cui è parroco da circa 5 anni e si accinge ad iniziare il giorno del suo onomastico con la celebrazione della Santa Messa. Insieme a lui l’amico fotografo Augusto di Meo: i due stanno concordando di andare dopo al bar insieme ad altri amici per festeggiare la ricorrenza con un caffè e un dolce.
Non potranno però realizzare quanto programmato: proprio in quel momento un’altra persona entra in sagrestia, un uomo di meno di 40 anni. con un giubbotto nero e i capelli lunghi, il quale, dopo aver chiesto ai due presenti chi di loro sia don Giuseppe Diana e avuta la risposta del sacerdote: “sono io”, immediatamente estrae una pistola e spara contro di lui 4-5 colpi letali.
Il killer si dilegua rapidamente, ma l’amico di don Peppino che ha assistito impotente alla scena lo ha riconosciuto come il camorrista Giuseppe Quadrano e senza esitare corre a denunciarlo ai carabinieri: la sua testimonianza sarà decisiva nel processo che seguirà. La notizia si diffonde rapidamente in tutta Italia destando notevole scalpore nell’opinione pubblica: perché mai, ci si chiede, arrivare a tanto? Perché uccidere un giovane parroco, per di più in un luogo sacro?
Per poter comprendere le ragioni del tragico evento è necessario ripercorrere le tappe della sua vita. I suoi genitori, semplici contadini, conoscendo la realtà già allora difficile di Casal di Principe, anche a costo di notevoli sacrifici economici, decidono di toglierlo dai pericoli della strada e lo mandano a studiare ancora bambino nel seminario vescovile di Aversa, dove frequenta le scuole medie e superiori. Sembra avviato a una brillante carriere ecclesiastica, perché, una volta conseguita la licenza liceale, prosegue i suoi studi alla Pontificia Facoltà Gregoriana di Roma, ma il clima austero del collegio dove vive lo mette in crisi, al punto da spingerlo alla decisione di lasciare tutto e rientrare a casa e di proseguire i suoi studi a Napoli, dove si iscrive a ingegneria. Proprio questa crisi, però, gli permette di comprendere a cosa il Signore Gesù lo chiama, di scoprire, insomma, la sua vera vocazione: quella di essere sacerdote tra la gente e per la gente. Così, rientra in seminario, ma a Posillipo, per essere poi ordinato sacerdote il 14 marzo del 1982.
Dimostra da subito un legame speciale con i giovani, anche grazie all’esperienza precedentemente maturata nello scoutismo, sicché viene nominato responsabile diocesano dell’AGESCI (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani), nonché assistente nazionale del settore Foulard Blanc, sezione nazionale della più vasta Comunità Internazionale Notre-Dame de Lourdes fondata dagli Scouts de France nel 1926 con l’intento di creare una Comunità di servizio verso i malati ed i giovani a Lourdes ed ovunque nello spirito dell’ospitalità di Nostra Signora di Lourdes. È anche cappellano dell’Unitalsi e accompagna i malati nei viaggi a Lourdes. Il suo legame con i giovani si nutre, però, anche di altre passioni e di momenti condivisi fuori dall’ambito strettamente spirituale: ad esempio, egli è anche un tifoso sfegatato del Napoli e lo si vede molto spesso presente sugli spalti dello stadio San Paolo per la seguire squadra del cuore insieme a un folto gruppo di ragazzi della sua comunità.
Il 19 settembre del 1989 viene nominato parroco della parrocchia di San Nicola nella sua Casal di Principe, per diventare poi anche segretario del vescovo della diocesi di Aversa, monsignor Giovanni Gazza. Si avvia, inoltre, all’insegnamento di materie letterarie presso il liceo legalmente riconosciuto del seminario “Francesco Caracciolo”, nonché di religione cattolica presso l’Istituto tecnico industriale statale “Alessandro Volta” e l’Istituto professionale alberghiero di Aversa. Il suo rapporto con i più giovani, in questo modo, si intensifica ancora di più, arricchendosi del momento formativo.
Don Giuseppe, da parroco, ama confondersi tra la gente e girare per il paese in jeans piuttosto che in tonaca. Il suo stile di vita è la trasparenza: lui vuol essere così come appare. E poi vuole che la “sua” Chiesa sia al servizio dei poveri, degli ultimi e per questo inizia a realizzare, senza esitare a metterci del proprio sia personalmente che economicamente, un centro di accoglienza per i primi immigrati africani, offrendo loro vitto e alloggio per sottrarli alle grinfie dei clan camorristi, già pronti ad assoldarli per farne dei perfetti soldati.
Il suo impegno civile si rivolge, però, anche alla sua comunità: egli è costantemente attivo nell’aiutare le persone nelle difficoltà determinate dalla presenza predominante e prevaricante della camorra e, in particolare, del Clan dei Casalesi, capeggiato dal boss Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, che non solo controlla i traffici illeciti, ma si è anche infiltrato negli enti locali, acquisendo in tal modo la gestione di fette rilevanti di economia legale, fenomeno etichettato con l’espressione “camorra imprenditrice”.
A tutto questo il giovane don Diana non può accettare di assistere inerte, perché lui non si accontenta di essere un mero burocrate chiamato ad amministrare sacramenti. “La sua voce era divenuta un grido che scuoteva le coscienze. Le sue non erano prediche generiche o esortazioni buone per ogni cerimonia, ma ragionamenti ricchi di esempi, di nomi e di cognomi, di denunce etiche e politiche” (Fonte: Ministero dell’Interno). Esorta specialmente i giovani a far sentire la propria voce e ad essere attivi e partecipi nel dibattito culturale, politico e civile della vita di Casal di Principe, invitando, invece, gli uomini della camorra a starne fuori e a smettere di inquinare e affossare il paese.
Di questo suo impegno, dell’appassionata e instancabile attività di sentinella intenta a ridestare e sollecitare la coscienza civica della sua comunità contro quella che lui definisce la “dittatura armata” della camorra ci resta un’importante testimonianza, un prezioso documento: la lettera “Per amore del mio popolo”, diffusa a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana insieme ai parroci della foranìa di Casal di Principe, un manifesto dell’impegno contro il sistema criminale che ci piace riportare interamente, per meglio comprenderne la figura.
La camorra, pienamente consapevole dell’importanza della sua azione e l’incisività nel risvegliare il senso civico dei suoi concittadini e non solo, non si è accontentata di ucciderlo, ma ha tentato in ogni modo e con ogni mezzo di infangarne la memoria. Tali tentativi hanno avuto inizio già sin dalle prime ore dopo la sua morte attraverso la diffusione dell’infondata voce che la sua uccisione sia da ricondursi a vicende di donne. A queste voci seguono vere e proprie campagne denigratorie con articoli apparsi sul “Corriere di Caserta”. Le gratuite e meschine calunnie lanciate nei confronti di don Peppino non hanno avuto, tuttavia, successo: al contrario, il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un profondo segno nella società campana tutta, rendendolo un faro nella diffusione di un rinnovato spirito di contrasto e opposizione alla camorra e le mafie tutte.