27 gennaio 1945: l’esercito sovietico entra nel campo di concentramento di Auschwitz, scoprendone e rivelandone al mondo l’orrore: vi erano circa 7 mila prigionieri che erano stati lasciati nel campo, mentre gli altri erano stati evacuati dalle SS tedesche, tra cui molti bambini, sopravvissuti perché usati come cavie per la ricerca medica. Ma c’erano soprattutto le camere a gas, i cumuli di cadaveri scomposti ammassati nelle fosse comuni, le baracche sconquassate e poi anche cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per essere venduti e occhiali, valigie, utensili da cucina e scarpe.
Questa data segna la fine del più grande sterminio di massa che la storia ricordi, meglio noto come Olocausto. Lo United States Holocaust Memorial Museum calcola che a perdere la loro vita furono circa 15-17 milioni di persone, di cui 6 milioni solo gli ebrei. Tutto ebbe inizio con l’avvio dei processi di “arianizzazione” promossi dal regime nazista, tra il 1933 e il 1945, con l’emanazione di leggi sempre più restrittive e persecutorie nei confronti dei cosiddetti “indesiderabili”, tra i quali si annoveravano tutti gli individui di origine ebraica e gli zingari, ma anche alcuni cittadini tedeschi: i “lavativi”, gli “asociali ereditari”, e tutti le persone con disabilità mentali o fisiche. Queste persone furono via via escluse dall’esercito e da ogni forma di pubblico impiego e in seguito di qualsivoglia posto di lavoro, privati dei loro beni, delle case, delle industrie, dei negozi e, infine, sottoposti a programmi di sterminio e pulizia etnica attuati mediante la deportazione nei campi di concentramento, la prigionia e la morte per lo più nelle camere a gas: questo è quel che normalmente viene chiamato Olocausto o termine Shoah.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che le leggi razziali furono emanate anche da noi in Italia e colpirono migliaia di nostri connazionali. Proprio per questo, per non dimenticare un simile orrore, con la legge 211 del 20 luglio 2000 è stato istituito nel nostro Paese il “Giorno della Memoria”, che cade, appunto, il 27 gennaio di ogni anno. Ma anche per ricordare coloro che da quest’orrore si sono volutamente e coraggiosamente dissociati, rifiutandosi di divenirne complici: uno di questi è Oskar Schindler, il quale, pur essendo di nazionalità tedesca e di religione cattolica, salvò quasi 1.200 Ebrei dalla deportazione ad Auschwitz, inclusi in un elenco di operai indicati come fondamentali per la sua nuova fabbrica, la “Schindler’s list” celebrata dall’omonimo film del 1993 diretto da Steven e vincitore di ben 7 premi Oscar. E come non ricordare anche Giorgio Perlasca, un commerciante italiano che nell’inverno del 1944, nel corso della Seconda guerra mondiale, fingendosi console generale spagnolo, salvò la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi, strappandoli alla deportazione nazista e alla Shoah. A questi personaggi e a molti altri, anche gente comune che con piccoli gesti ha sfidato la furia dei soldati nazisti offrendo rifugio e salvezza ad Ebrei ed altri perseguitati, è stata conferita il titolo di Giusto tra le Nazioni, un’onorificenza che, richiamandosi alla tradizionale espressione ebraica di “gentile giusto” per indicare i non ebrei che hanno rispetto per Dio, viene conferita da un’apposita commissione costituita nel 1963 e guidata dalla Corte suprema di Israele, della quale fanno parte personalità pubbliche volontarie, professionisti e storici, molti dei quali sono essi stessi dei sopravvissuti. Possono esserne insigniti i non ebrei i quali abbiano compiuto atti di salvataggio della vita a uno o più ebrei.
Oggi, dunque, facciamo memoria di questa triste pagina di atrocità e inumanità. Ma, a distanza di tanti anni, che cosa è rimasto di questa immane tragedia nella nostra memoria collettiva? Abbiamo la fortuna di poter conservare e perpetuare alcune testimonianze trasposte in opere letterarie, come quella di Primo Levi, “Se questo è un uomo” o “Il diario di Anna Frank”, scritto da una ragazzina che non sopravvisse allo sterminio e trasposto anche in forma teatrale in una pièce degli anni ’50 del secolo scorso. E ci sono anche gli ormai pochi testimoni viventi, coloro che sono sopravvissuti ai campi di prigionia e che ancora oggi sono la voce di chi in quei tristi luoghi ci ha lasciato la vita. La Senatrice a vita Liliana Segre è una di loro: dopo un lungo periodo di riflessione e silenzio, a partire dagli anni novanta iniziò a raccontare pubblicamente la propria esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz e da allora è instancabilmente impegnata a sensibilizzare le nuove generazioni non solo contro l’antisemitismo, ma, in generale, contro il razzismo e le discriminazioni in qualunque modo attuati e lottando anche l’atteggiamento di indifferenza che spesso si riscontra rispetto a tali problematiche, rispetto a scene di disprezzo e discriminazione che spesso riscontriamo nella nostra società: verso chi ha la pelle di un colore diverso o magari ha una qualche disabilità fisica o è comunque “diverso”. E sempre più spesso riaffiorano qua e là anche rigurgiti di antisemitismo, cioè di odio contro gli Ebrei.
La storia, si sa, è maestra di vita, ma se gli alunni, che siamo tutti noi, non ne ascoltano la lezione, poi si rischia di ricadere nell’orrore. Sembra assurdo, ma non lo è affatto. Il punto di partenza è l’indifferenza: non soltanto da parte di chi, a suo tempo, assistette alle atrocità senza muovere un dito o anche solo levare una voce per opporvisi, ma anche di chi, ieri come oggi, nega in tutto e per tutto la Shoah. Ecco, il negazionismo e l’indifferenza sono ciò che più di ogni altra cosa fa male ai superstiti dell’orrore, perché rinnova in loro il dolore che hanno vissuto è, per citare il titolo di un’opera di Elisa Springer, pubblicata nel 1995 (cinquantesimo Anniversario della Liberazione dei prigionieri di Auschwitz), “Il silenzio dei vivi”.
di Gianfranco Bognandi