Come ogni anno, le ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei defunti suscitano in me tanti ricordi che puntualmente si presentano alla mia memoria: fin da bambino ricordo che nei giorni dell’1 e 2 novembre c’era la consuetudine di andare a far visita ai nostri cari defunti nei cimiteri, portare dei fiori nelle loro tombe e fermarsi a pregare almeno qualche minuto. Oggi tutto questo sembra essere solo un lontano ricordo, appunto: c’è soltanto Halloween che riempie i negozi di zucche svuotate ed altre strane maschere e accessori ed entra nelle nostre case attraverso la televisione che propone continuamente pubblicità, nonché film e altri programmi a tema. Tengo a sottolineare che questo non è il solito attacco ad una festa di origine pagana importata dai Paesi anglosassoni e che, comunque, ben poco ha a che fare con le nostre radici cristiane, anche se l’etimologia del nome richiama proprio la festa di tutti i santi. Non si tratta, insomma, di prendersela coi bambini che, innocentemente, trascorrono un pomeriggio in giro per le strade mascherati a chiedere dolciumi agli adulti che incontrano con il ben noto ritornello “dolcetto o scherzetto?”.
Semmai, c’è da interrogarsi sulle ragioni di questo fenomeno d’importazione. Si potrebbe parlare di un’operazione di tipo culturale, cioè del tentativo – assolutamente riuscito, occorre dirlo! – di soppiantare le nostre tradizioni sostituendole con usanze di altri popoli, ma la spiegazione risulterebbe riduttiva e incompleta se non si andasse ad indagare sul fattore dominante che ispira e permea tale operazione e che si pone a un livello decisamente inferiore, ossia quello delle spinte a carattere economico: Halloween è innanzitutto un business e la sua diffusione si ricollega principalmente al fatto che è risultato un prodotto vincente, un motivo in più per incentivare i consumi generando profitti enormi per chi è in grado di sfruttarlo a dovere. Per farsi un’idea del business che ruota attorno a questa ricorrenza, solo negli Stati Uniti ogni anno si spendono dai 5 ai 10 miliardi di dollari per questa ricorrenza, che è la più commerciale dopo il Natale. Anche gli altri paesi, però, non stanno a guardare e fanno, anzi, segnare ogni anno nuovi record di spesa a tutte le latitudini e persino in oriente dove la Cina la fa da padrona, producendo ed esportando la maggior parte di maschere, dolcetti e travestimenti di Halloween, con un valore che supera i 14 milioni di euro: è la globalizzazione, baby! E l’Italia, ovviamente, non ne è affatto immune, sebbene i dati sui consumi siano ben lontani da quelli Americani e anche lontani dalla spesa per le feste più vicine agli italiani, la crescita è comunque vertiginosa e ogni anno il business è in costante incremento: zucche, dolcetti, costumi, trucchi, maschere, scherzetti rappresentano un vero e proprio affare per le attività commerciali, dominatrici indiscusse nell’export delle zucche. Secondo i dati della Camera di commercio di Milano nel nostro Paese le imprese coinvolte in questo business sono oltre trecentomila (fonte: internet).
E siamo solo all’inizio!
Sì, perché, Halloween non è che la prima di una nutrita serie di ricorrenze ormai votate al consumismo e proprio per questo qualcuno ha individuato in essa “l’inizio dell’anno liturgico del consumismo” (fonte: Avvenire, edizione del …). Se l’anno civile ha inizio con il 1° gennaio e quello liturgico con la prima domenica di Avvento, l’anno liturgico del consumismo parte da Halloween.
Già dall’indomani, riposti in soffitta zucche e scheletri assortiti, prendono il via le prime reclame natalizie con alberi, addobbi, panettoni e dolciumi vari, idee regalo e l’immancabile caminetto da cui si attende venga giù Babbo Natale. Sono solo avvisaglie, magari intervallate dai richiami al nuovo rito del Black Friday, questo, almeno, dichiaratamente commerciale all’insegna dello shopping compulsivo di prodotti hi-tech da acquistare perché a prezzi imperdibili, anche se non sai che fartene. Il bombardamento vero e proprio, però, deve ancora cominciare e si farà sempre più intenso man mano che ci si avvicinerà al mese di dicembre. Allora l’unica preoccupazione diffusa diverrà la consumazione del Natale: i negozi rimarranno aperti tutti i giorni dalla mattina alla sera e forse anche di notte per venire incontro a tutte le esigenze e a tutte le urgenze e avrà inizio la ricerca spasmodica di oggetti da regalare, spesso nella perfetta e lucida consapevolezza della loro inutilità, di addobbi da acquistare, di luminarie da accendere, di panettoni assortiti e cibarie varie da acquistare per ingurgitarle quasi per inerzia, “perché a Natale si sa, va così”, desiderando ardentemente l’arrivo dell’Epifania, orribilmente storpiata in befana, che segna la fine delle feste. Immersi in questa febbre collettiva, rischiamo seriamente di perderci il Festeggiato, ossia il Bambin Gesù, che, se gli va bene, rimane sullo sfondo facendo la sua apparizione in qualche servizio giornalistico sui presepi di Napoli, mentre per il resto finisce nel dimenticatoio più totale. Tant’è che la solennità della Sua Manifestazione è stata totalmente soppiantata da un’ulteriore appendice di ingordigia dolciaria alimentata dal fantomatico arrivo di una vecchietta che vola su una scopa: altri consumi, altro business! In mezzo il Capodanno, occasione anch’esso per ulteriori consumi fuori controllo in cibo, beveraggi e serate organizzate già dall’estate.
Concluse le festività natalizie, non si può mica attendere un anno senza trovare nuovi motivi ed occasioni da trasformare in smania consumistica! E allora, ecco che la ricorrenza nata per rinnovare la poesia dell’incontro tra due persone che si amano e si scelgono a vicenda per iniziare o proseguire un percorso di vita assieme deve fatalmente trasformarsi in una nuova giostra del consumo: fiori, cioccolatini, anelli e cene divengono quasi un obbligo sociale da adempiere.
Passato il giorno di San Valentino, è la volta della giornata internazionale della donna, banalmente semplificata in “festa della donna” e ridotta allo sterminio delle piante di mimosa accompagnata, naturalmente, dalla cena al ristorante.
Si arriva, quindi, alla Pasqua e il panettone natalizio trova il suo degno epigono nella colomba cui si aggiungono le uova di cioccolato e il relativo business delle sorprese. Ancora una volta, dell’originario protagonista della ricorrenza e delle sue vicende terrene nessuno dice niente.
In questo elenco non può non finire anche il Ferragosto con la settimana che lo precede, in cui pare sia divenuto obbligatorio “fare qualcosa”. E che dire, poi, della Festa del Papà e di quella della Mamma o di occasioni che immancabilmente capitano nella vita personale e familiare di ciascuno, come matrimoni, compleanni, anniversari di nozze, ma anche prime comunioni e cresime? Non è possibile badare a spese se non si vuole sfigurare! Ogni ricorrenza rappresenta, insomma, un buon motivo per consumare e, vista da un’altra prospettiva, per fare business.
È doverosa, in conclusione, una puntualizzazione: non si vogliono qui demonizzare i momenti di festa, la gioia dello stare insieme o anche di fare un regalo a chi si vuol bene, ma soltanto rivolgere un invito alla riflessione sulla società nella quale viviamo, sugli input – o forse sarebbe più appropriato chiamarli diktat – che quotidianamente riceviamo e che tendono a privarci della nostra libertà, imponendoci senza alcuna possibilità di scelta il consumo a tutti i costi come modalità unica possibile per vivere i vari momenti dell’anno, anche quelli spiritualmente forti, svuotandoli del loro significato originario.
E allora perché non ci riappropriamo dele nostre feste?