Settembre è il mese in cui ricomincia la scuola, nuove classi, nuovi percorsi. Ormai da un paio d’anni dall’inizio della pandemia, l’inizio della scuola e delle attività educative e pastorali del territorio è stato particolarmente sofferto.
I ragazzi hanno sentito non poco la mancanza della scuola, della catechesi e delle attività a cui di solito erano abituati.
Ma perché? Abbiamo avuto la DAD, abbiamo avuto il catechismo online, quindi abbiamo trasmesso lo stesso le informazioni che dovevamo trasmettere. La comunicazione è arrivata dove doveva arrivare. Ma allora cosa è andato storto. Perché al rientro a scuola abbiamo trovato lacune immense nella formazione dei ragazzi; perché li abbiamo trovati chiusi e lontani; perché durante i pochi incontri di catechesi, fatti in presenza, alla vigilia della confermazione, li abbiamo visti così solitari…
Cosa non ha funzionato?
Abbiamo insegnato lo stesso, parlato, chiacchierato. Ma è mancato un fattore importante: il contatto fisico, visivo, empatico. Contatto che si realizza solo in presenza.
Chi fa il lavoro dell’insegnante così come chi fa il catechista, trova nelle attività in presenza con i ragazzi la sua realizzazione. Lo si fa perché si vuole stare con i ragazzi, perché ci si nutre delle attività d’insegnamento. Se ne esce ricaricati. Così come i telefoni con i carica batterie. Né più né meno.
Chi presta un servizio di educazione alla comunità, qualunque esso sia, non lo fa per lo stipendio. Si fa l’insegnate per vocazione ancor di più il catechista. Se così non fosse non si potrebbe insegnare. A poco serve aver studiato, o possedere la migliore delle preparazioni. Ciò di cui veramente necessità un buon educatore è la capacità di catturare l’attenzione e l’interesse di chi gli sta di fronte.
Socrate diceva: “io non posso insegnare niente a nessuno io posso solo farli pensare”. E così è. Nulla può essere insegnato se dall’altra parte non c’è il desiderio di apprendere
San Domenico e il suo maestro don Bosco andavano, nelle borgate di Torino a raccogliere i bambini/ragazzi meno fortunati che versavano in situazioni disastrose, e oltre ad appagare i loro bisogni fisici cercavano di dare un istruzione a questi poveri sventurati, che avevano più desiderio di sfamarsi che di imparare. Ma don Bosco ha trovato il modo di istruirli inventando addirittura un metodo tutto suo …
È la vocazione dal latino Vocatio, chiamare, che fa di un educatore un buon educatore, il quale non può porsi davanti ai ragazzi se non è munito di un qualcosa di fondamentale … IL CUORE, bisogna insegnare con il cuore. Ma per insegnare con il cuore bisogna sentire non solo quello che gli si sta insegnando, ma soprattutto sentire a chi lo si sta insegnando, capire ed entrare in empatia con chi si ha davanti sentire le sue necessità, saper ascoltare le richieste che ogni individuo fa. Anche quelle silenti. Bisogna avere la capacità di leggere gli occhi, cogliere quegli sprazzi di luce che possono essere di gioia, ma anche ahimè a volte delle richieste di aiuto, un aiuto che magari non si sa esprimere a parole.
Ed qui che l’educatore/insegnante/ catechista/mister, si mette in gioco quando coglie quella richiesta, quando supporta quel bisogno, quando tira fuori dal tunnel quell’individuo che tutti davano per spacciato. Basta veramente poco anche una semplice mano sulla spalla, un sorriso, per far sentire quel ragazzo un essere umano che è ascoltato. Nel momento in cui lo si guarda losi considera come persona. Gli stiamo dando una chance. Sta tutto nello sguardo. In Marco (10,17-22) “Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò” a lui non serve altro per amare. Ed è quello che siamo chiamati a fare noi educatori, a fissare lo sguardo su coloro i quali ci vengono affidati e ad amarli. Così come sono.
Questo porterà solo benefici… Dobbiamo dare fiducia, coinvolgere il più possibile dimostrare di possedere competenze non solo disciplinari ma soprattutto emotive, perché l’educazione è cosa del cuore.
1 commento
Complimenti.Non si può insegnare se non si è muniti di qualcosa di fondamentale …..IL CUORE.
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