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Due mense, un solo corpo.

Ricordo del ministero sacerdotale di Don Paolo Ferlisi

da Redazione
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Sicuramente il nome Paolo lo interpellava e, in certo senso, lo faceva identificare con il grande Apostolo. Paolo di Tarso, pur non avendo conosciuto Gesù di Nazaret, si era sentito chiamato per nome dal Risorto fino al punto di parlare di sé in questi termini: «Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?» (1 Cor 9,1).

Essere degni di un nome non scelto ma grande, che ti sta addosso e che segna la tua identità: nomen omen, il nome è un augurio, un destino. Per don Paolo Ferlisi il nome rispecchiava anche una scelta. Chissà nella sua lunga vita quante volte avrà riletto una delle affermazioni più potenti di Paolo: «Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). Molti di quanti abbiamo conosciuto don Paolo intuiamo che il suo ministero sacerdotale si è nutrito costantemente di quella potenza e che la suggestione di quelle parole non è rimasta semplice suggestione, perché si è risolta nella sostanza del servizio. Un servizio incessante che gli procurava ansia, un tratto della sua persona accentuato dalla consapevolezza del compito oneroso di essere pastore. «Sono il parroco Ferlisi» si presentava al telefono, e in quel qualificarsi c’era la coscienza della responsabilità del ruolo più che la credenziale del ruolo stesso.

Predicare il Vangelo di Gesù il Cristo innanzitutto ed esclusivamente, finalizzare l’esistenza all’annunzio del Pastore bello e della sua buona Novella: «ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura» (Fil 3,8), un versetto che gli piaceva molto e che citava spesso scandendo le ultime parole.

Niente mestiere né manie ritualistiche nel ministero di Don Paolo Ferlisi, e ciò anche se il posto ‘migliore’, il luogo per eccellenza del suo servizio di sacerdote era l’altare, la mensa del Corpo di Cristo. E sempre assieme alla mensa della Parola di Dio: saliva all’ambone per spezzare la Parola con lo slancio e la dedizione del novello sacerdote che era rimasto. Due mense perfettamente collegate, una liturgia unitaria – così come la liturgia deve essere –, armonica, senza inutili intrusioni di elementi che spesso avanzano la pretesa di chiarire il senso dell’azione liturgica. Una liturgia ornata solo di semplicità e decoro. Il decoro, la cifra della persona e del ministero del Parroco Ferlisi riconosciuta e ammirata da tutti.

Aveva una interiorità molto sviluppata, al cui centro era la persona Gesù, il Vivente. Osservandolo mentre parlava, confessava, predicava, mentre visitava i malati e persino mentre si divertiva alzando la voce nel sottolineare una frase scherzosa che poi culminava in una risata, si aveva l’impressione di una persona che non smette di essere in relazione.  Infatti, dopo l’allegria ritornava serio a riflettere sui fatti di cui si parlava e a leggerli nell’ottica del Vangelo. Era come se quella riflessione derivasse da un altro dialogo in corso nella sua interiorità.

Le sue parole provenivano dal silenzio e dalla contemplazione davanti al Santissimo a cui dedicava tutto il tempo possibile della sua giornata. Là preparava dal lunedì al sabato l’omelia per la domenica successiva. Nelle sue omelie, le parole divenivano in alcuni casi irruenti come quelle dell’Apostolo, ma rimanevano sempre traboccanti di carità per i fedeli che ascoltavano. Una volta, alla fine della predica dello schiodamento durante l’ultimo venerdì di quaresima, gli chiesi da dove traesse tutta quella forza e come facesse a non intimorirsi e a trovare un registro così efficace per entrare in rapporto con quella marea di gente. Mi rispose: «Quando vedo queste folle, le amo, per questo riesco ad andare avanti senza bloccarmi. È gente che viene perché ha bisogno della Parola di Dio».

Dopo parecchi anni mi appare più chiaro perché non riuscisse a gestire certe situazioni di tensione presenti nella comunità, per le quali alcuni di noi in certi momenti si confrontarono animatamente con lui. Credo che la sua disponibilità ad accogliere e a guardare tutti senza riserve, il candore che lo portava a fidarsi di chiunque riuscisse ad accreditarsi ai suoi occhi fossero alcune delle cause (congiuntamente ai nostri limiti umani) di diverse difficoltà della vita comunitaria. Ognuno di noi avrebbe voluto che il Parroco fosse più deciso nell’affrontare i problemi. Da parte sua, invece, la logica era – ancora una volta – quella espressa dall’Apostolo delle genti in versetti particolarmente amati (assieme ai discorsi di addio di Gesù dei capitoli 13-17 del vangelo di Giovanni): «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). Il “vuoto” d’autorità di don Paolo era dovuto a un’attesa. Desiderava che la sua comunità si rendesse conto di ciò a cui era chiamata: se voleva davvero servire la Chiesa e il mondo, doveva farlo nell’unità. Era pienamente convinto del fatto che nell’acquisizione di questa consapevolezza non ci sono imposizioni e scadenze. Per lui si trattava di aspettare continuando a celebrare, predicare, esortare, servire. E anche di riempire il tempo dell’attesa con l’intensificazione della preghiera e la richiesta al Padre dell’unità.

di Michelangelo Lorefice

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