Giuditta rispose loro: «Ascoltatemi! Voglio compiere un’impresa che verrà ricordata di generazione in generazione ai figli del nostro popolo. Voi starete di guardia alla porta della città questa notte; io uscirò con la mia ancella ed entro quei giorni, dopo i quali avete deciso di consegnare la città ai nostri nemici, il Signore per mano mia salverà Israele. Voi però non fate domande sul mio progetto: non vi dirò nulla finché non sarà compiuto ciò che sto per fare».
Quando Giuditta ebbe cessato di supplicare il Dio d’Israele ed ebbe terminato di pronunciare tutte queste parole, indossò gli abiti da festa, che aveva usato quando era vivo suo marito Manasse. Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto bella, tanto da sedurre qualunque uomo l’avesse vista [e si diressero verso l’accampamento dell’esercito nemico per discutere con i capi].
Le parole di lei piacquero a Oloferne e ai suoi ufficiali, i quali tutti ammirarono la sua sapienza e dissero: «Da un capo all’altro della terra non esiste donna simile, per la bellezza dell’aspetto e la saggezza delle parole».
Quando si fece buio, Giuditta fu lasciata nella tenda e Oloferne era sprofondato sul suo letto, ubriaco fradicio. Si erano allontanati tutti dalla loro presenza e nessuno, dal più piccolo al più grande, era rimasto nella camera da letto. Giuditta, fermatasi presso il letto di lui, disse in cuor suo: «Signore, Dio d’ogni potenza, guarda propizio in quest’ora all’opera delle mie mani per l’esaltazione di Gerusalemme. È venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio progetto per la rovina dei nemici che sono insorti contro di noi».
Avvicinatasi alla sponda del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: «Dammi forza, Signore, Dio d’Israele, in questo giorno». E con tutta la sua forza lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via la cortina dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera. Attraversato l’accampamento, fecero il giro della valle, salirono il monte di Betùlia e arrivarono alle sue porte.
(Gdt 8,32-34. 10,1-4. 11,20-23. 13,1-10)
La famosa scena notturna, così viva e immediata, in cui si compie l’azione liberatrice della protagonista, richiede una giustificazione apologetica dell’azione violenta commessa da Giuditta.
Solo se si legge l’opera in ogni sua parte, nel suo tenore originale, nella sua espressione esteriore, in modo tale da decifrarne il senso teologico, l’interpretazione complessiva del libro non scade in quella fedeltà al testo che è la fedeltà solo alla lettera, nota con il termine di fondamentalismo.
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La storia di Giuditta è narrata nell’omonimo libro. Assieme ai libri di Tobia, al Primo e al Secondo libro dei Maccabei, al libro della Sapienza, del Siracide e di Baruc, formano il gruppo dei cosiddetti Libri deuterocanonici, cioè non compresi nel canone ebraico e respinti dai protestanti.
Il nome Giuditta è il femminile di Giuda, immagine della donna fedele, la cui storia è totalmente inventata e ambientata intorno al 500 a.C., dunque inserita in dinamiche storiche che riguardano il tempo dell’esilio e del post-esilio.
Il testo, scritto in greco così come gli altri libri deuterocanonici, è stato realmente stilato tra il III-II sec a.C.
Anche i nomi delle località dove avvengono i fatti principali, sono tutti inventati.
Il protagonista negativo è un generale di Nabucodonosor di nome Oloferne, il quale vuole conquistare Gerusalemme durante la campagna d’Occidente.
La storia è ambientata presso l’ideale città di Betulia, il cui nome significa la Vergine di Dio, ultima roccaforte da espugnare prima di Gerusalemme.
Essa è l’immagine della città fedele.
Oloferne è in procinto di conquistarla; Ozia, capo della città di Betulia, non sapendo come resistere al nemico, è disposto a cedere la città finché non compare nella scena Giuditta, figura integra e devota che si assume l’onere di salvare il suo popolo.
E’ una ricca e bella vedova, che assieme alla sua gente di Betulia sta subendo da 34 giorni l’assedio nemico.
Il testo dice che “era una donna bella di aspetto e molto avvenente nella persona […] né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché aveva grande timore di Dio” (Gdt 8,7-8)
Giuditta non resta con le mani in mano, anzi, va diretta ai Capi Anziani e li rimprovera duramente del fatto di avere poca fede nel Signore.
Risulta chiaro che qui è in discussione la fede nell’Alleanza e la libertà che da essa ne consegue. Perché diventare schiavi di un padrone, anche se si tratta di avere salva la vita? Il messaggio biblico è chiaro: arrendendosi al nemico, si sconfessa la presenza di Dio e del suo operare nella storia degli uomini.
Se i capi vengono meno ai propri doveri, perché presi dalla paura e dalla incapacità di elaborare un piano strategico, allora si fa avanti una donna, ritenuta per natura debole.
L’autore del libro, compatibilmente con il genere letterario e con le sue forme molto discutibili che ha adottato, certamente figli del loro tempo, ci vuole trasmettere l’insegnamento che fidarsi di Dio, vuol dire entrare nei suoi disegni senza nulla pretendere, anzi accettando che la sua salvezza ed il suo aiuto giungano a noi in modo diverso rispetto alle nostre aspettative.
Dalle labbra di Giuditta, e dai suoi gesti, viene rimarcato il valore della fede come pietra fondante, l’unica realtà che può dare stabilità a tutto l’impianto dell’esistenza; essa rifiuta a priori l’idea di un’attesa rassegnata, credendo e sperando in un Dio che sbrogli la matassa. La sua azione, mira infatti a orientare la sua comunità verso un atteggiamento, che dia spazio alla speranza. Solo chi è animato dalla speranza, è capace di assumersi delle responsabilità, è capace di trovare in sé la forza e l’intelligenza per immaginare vie inedite, strade mai battute, che solo Dio riesce a tracciare, le sole che permettano di uscire da una situazione di morte.
Informati dunque i capi del popolo di Betulia di una sua imminente iniziativa personale, Giuditta esce dalla città con la sua serva; in forza della sua bellezza si fa accogliere nella tenda del generale. Questi, colpito dalla sua bellezza, pensò subito di farla sua. Giuditta sta al gioco e racconta al generale che il popolo ebreo aveva gravemente offeso il loro Dio e che le era apparso per dirle di aiutare Oloferne a entrare in città.
In una di quelle sere, durante un banchetto, Giuditta si mostrò compiacente e docile con l’uomo che mangiò e bevve al punto di ubriacarsi e approfittando di questo momento favorevole ai suoi piani, sfodera una spada e gli taglia la testa. La serva mette la testa in un sacchetto, si lasciano alle spalle l’accampamento e rientrano subito a Betulia.
Qui è come se si ripetesse la storia del giovane Davide che ha la meglio sul gigante Golia; una donna inerme che ha la meglio su un generale molto temuto per la sua crudeltà.
All’indomani mattina, l’esercito di Oloferne, confuso e impaurito per la perdita del generale, mette termine all’assedio e fugge via.
Giuditta rientra osannata nella città di Betulia e tutti dicono di lei: Benedetta tu fra le donne. Tu gloria di Gerusalemme, letizia e nostro onore.
Una donna sola e debole che sconfigge da sola un esercito è il tipico esempio di teologia narrativa, una storia didattica, che vuole insegnare che il piccolo resto di Israele con la spada della preghiera, può vincere ogni nemico. E’ la fiducia in Dio che salva, non i mezzi e le strutture umane.
Cosa ci insegna Giuditta? La forza disarmata della preghiera.
Ci insegna ad essere disposti ad affrontare la mostruosa potenza dell’esercito di Oloferne con le semplici armi della preghiera e la piena confidenza nel Signore. Per lei la preghiera è un vero momento di dialogo con il Tu di Dio, che aiuta a far luce sulla vera consistenza di ciò che appare irresistibile.
L’autore del libro ha composto una parabola, e vuole offrire, attraverso questo racconto, una riflessione su come vivere di fede in un contesto storico segnato dalla grande idolatria del potere e dall’arroganza. Egli vuole proporre a tutti noi lettori di ogni epoca, un modello esemplare per sbarazzare il campo da alcuni fraintendimenti e per proporre un modo autentico di vivere la fede, scevro da un atteggiamento di fuga o di rassegnazione, ma che sia rivolto piuttosto ad una presa di responsabilità nei confronti del mondo.
Vogliamo sottolineare infine il vero grande paradosso che ci mostra questa vicenda; esiste un modo di affidarsi a Dio ed è il suo andare incontro al nemico in una condizione di estrema debolezza e di totale disarmo.
Questo è il vero inganno che fa saltare la presunta superiorità di chi crede di poter scrivere la storia ricorrendo alla forza delle armi e alla potente seduzione dei suoi idoli. Ma se Oloferne perde la testa per Giuditta (in tutti i sensi), questo è conferma di quanto dice l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede”(1Gv 5,4).
Salvatore Donato BRUNO