Accogliamo e pubblichiamo una testimonianza di grande valore su Don Paolo Ferlisi nella domenica in cui comunitariamente celebriamo il suffragio per l’anniversario della morte. La sensibilità liturgica, unita alla passione e alla preghiera, erano le costanti del suo ministero sacerdotale. Tanti hanno avuto modo di arricchirsi e formarsi alla “scuola liturgica” che ha curato con insigne e particolare cura. Ancora oggi la sua presenza risuona nella cura e nell’attenzione ai riti e alla musica sacra.
Il rapporto di Don Paolo Ferlisi con la musica era assai stretto. Possedeva un notevole gusto estetico, che univa alla considerazione mistagogica del canto liturgico, nel quale vedeva un’apertura alla trascendenza.
Me ne resi conto a partire dalla fine del 1980, quando, ritornato a Ispica con la nomina di parroco della Ss. Annunziata, mi contattò per ricostituire la schola cantorum, fondata 5 anni prima da un gruppo di adolescenti ed entrata in crisi da un paio d’anni. Mi aveva invitato qualche volta a istruire nel canto i giovani della parrocchia San Giuseppe della nostra città, nella quale fu parroco fino al 1978, e non poche volte ad animare le celebrazioni liturgiche nella sua parrocchia.
Quella del suo arrivo fu per molti di noi fu l’occasione per ritrovarci dopo quel periodo di dispersione. Aveva la reputazione di sacerdote sempre disponibile al colloquio, alla confessione, al consiglio.
Ci mettemmo subito all’opera, andando oltre le pratiche dei primi anni, nei quali eseguivamo canti molto semplici che nelle chiese andavano allora per la maggiore e che si dicevano essere «per i giovani». Incominciammo a fare qualche corale prima a tre voci, poi a quattro voci. Diciamo che in quegli anni non avevamo una chiara concezione del senso del canto liturgico, anche se il criterio di scelta era quello della bellezza delle melodie e delle armonizzazioni, della semplicità (non del semplicismo) della musica, della sua eseguibilità (lontani da stili entusiastici e musicalmente “indisciplinati”), del rifiuto di quella superficialità di tanti canti che facevano leva un presunto “messaggio” del testo o sulla mera orecchiabilità.
Circa un anno dopo il suo arrivo iniziammo a introdurre il canto gregoriano. Fummo subito attaccati da una frangia ecclesiale che si riteneva “progressista” e conoscitrice dello spirito dei tempi. Nella nostra opzione furono visti accenti di arcaica nostalgia, spinte estetizzanti e aristocraticismo liturgico; quella musica venne considerata impopolare e priva di accessibilità. In realtà, molti la apprezzavano e l’assemblea era sempre più coinvolta. Nel 1983 la scola della Ss. Annunziata venne invitata in cattedrale ad animare la Messa crismale del Giovedì santo; 5 anni dopo, assieme a una corale cittadina sorta in Chiesa Madre, animava il XXV di ordinazione episcopale di Mons. Nicolosi (in quell’occasione fu eseguita la Missa “De Angelis” di Domenico Bartolucci).
Dal canto suo, Don Paolo Ferlisi, apprezzava, incoraggiava e sosteneva le nostre iniziative, e lo faceva per il motivo che ho detto prima: gusto estetico e finezza spirituale gli consentivano di cogliere la natura mistagogica del canto liturgico (che, comunque, non si realizza solo nelle forme tradizionali o antiche). “Mistagogia”, “introduzione al mistero”: forma mistagogica dovrebbe avere tutta la pastorale, nella quale dovrebbe realizzarsi quella misura «capace di armonizzare tra loro catechesi, liturgia e vita, e di favorire il coinvolgimento della comunità, in tutte le sue componenti, nell’agire pastorale» (Mons. F. Cacucci).
Non voglio dire che tutto ciò fosse pienamente realizzato nella nostra comunità. Non lo dico anche perché il Parroco Ferlisi aveva abituato la sua comunità a non vantarsi e a fare autocritica. Ricordo che nella visita pastorale indetta da Mons. Nicolosi nei primi anni ‘80, nelle assemblee presenziate dal Vescovo le relazioni di alcune parrocchie davano l’impressione che in quelle comunità si vivesse in una chiesa ideale, assolutamente perfetta, sovrumana. Dal canto suo, Don Paolo nelle stesse occasioni presentava con franchezza le difficoltà o persino le inadempienze della comunità da lui guidata, mettendole in comune con tutti e aprendosi a contributi che potessero suggerire chiarimenti. Lo faceva con quella onestà che era una delle caratteristiche più evidenti della sua personalità.
Al di là dei risultati, nei vent’anni in cui fu parroco ebbe chiara la necessità di spingere la comunità (intesa non solo come il gruppo dei “vicini”) a realizzare una sintesi tra catechesi, liturgia e vita.
Intanto, tra il 1987 e il 1988, trovandomi a Palermo per il servizio militare, conobbi Mons. Giuseppe Liberto, allora Maestro di Cappella del Duomo di Monreale. Questo fatto cambiò radicalmente le prospettive del coro, la visione del suo ruolo, il senso stesso del canto. La sua musica, sconosciuta in diocesi, apparve a noi tutti di una bellezza inesprimibile. Il Parroco durante le prime prove della Messa VII rimase meravigliato da quelle sonorità. Uscì dalla sacrestia con un sorriso stupefatto e stette a sentire il coro. Comprese che era musica autenticamente nuova e originale, che aveva un impatto sull’assemblea e aiutava i fedeli a partecipare con un’altra tensione spirituale.
I contributi di Mons. Liberto non si limitarono solo alla trasmissione di spartiti. Mi faceva avere articoli, studi di carattere teorico, materiali vari che spesso provenivano dalle iniziative del Centro di Azione Liturgica.
Nel 1992 all’Annunziata si tenne un convegno diocesano di liturgia nel quale era relatore proprio Mons. Liberto. In esso molti nodi di alcune concezioni del canto liturgico vennero al pettine. I pregiudizi e gli stereotipi che un decennio prima si erano riversati sulle nostre iniziative vennero chiariti e dissolti. Non si trattava solo di affermare uno stile di canto diverso rispetto a quello prevalente, ma di ripensare la relazione tra schola e assemblea, di riportare la schola all’interno dell’assemblea e della stessa azione liturgica, evitando che assumesse ruoli puramente esornativi e di supremazia, se non di monopolio del canto di lode. Ovviamente, il convegno non si occupava solo degli aspetti tecnici del canto, ma aveva l’obiettivo di stimolare la comunità diocesana a vivere lo spirito della riforma liturgica così come era stata concepita dal Concilio (obiettivo per il quale Mons. Liberto è ancora all’opera).
Don Paolo mostrava di essere avanti su tali concezioni. Seguiva con molta attenzione le sollecitazioni a ripensare comunitariamente la liturgia, a fare della celebrazione eucaristica la sintesi di tutta l’esperienza cristiana. Era il tema a lui più caro. Il suo rapporto con la liturgia era quello di chi la vive nei livelli più profondi della propria esistenza. Nella ‘sua’ messa portava sull’altare ogni pensiero, ogni atto, ogni incontro, ogni evento della sua vita. Lo spirito con cui viveva la liturgia si manifestava in particolare il Venerdì santo, quando durante la liturgia dell’adorazione della Croce cantava l’Ecce lignum. In molti ricordiamo ancora la concentrazione – che a tratti sembrava generare una sorta di elevazione della sua persona e di tutta l’assemblea – con la quale viveva quel momento.
Mi ritrovo una scheda con la seguente citazione: «La frequentazione liturgica è ascolto-visione dell’inaudito-invisibile che Dio stesso dice e mostra al popolo suo. E l’artista liturgico opera per fare udire l’invisibile e vedere l’inaudito che Dio stesso dice e mostra al popolo suo» (C. Valenziano). Sotto questo punto di vista, Don Paolo Ferlisi era a pieno titolo artista.
di Michelangelo Lorefice
(In foto: Don Paolo Ferlisi in una concelebrazione con Mons. Giuseppe Malandrino Vescovo Emerito di Noto)
1 commento
Complimenti,carissimo Michele ; articolo a dir poco eccezionale ed esaustivo . Ricordi ,piuttosto toccanti.Bravissimo