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Abbecedario bioetico. La “Cura”

da Giovanni Peligra
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LA CURA
Primo Incontro

Lasciandoci interrogare dalle domande dell’articolo di argomento bioetico sul senso fattivo da recuperare o dare al “prendersi cura” scritto da Marzia Torre per Annunziando qualche settimana addietro, è venuta l’idea, speriamo gradita, di dare avvio ad una serie di articoli di carattere bioetico che abbiano lo scopo, ritenuto giusto e quanto mai necessario, di offrire delle brevi ed incisive riflessioni su alcune parole chiave del discorso morale, per un agire eticamente orientato.

E’ un elenco ragionato di quegli ingredienti fondamentali che ogni abitante della Terra, in particolar modo se credente e discepolo del Signore della Vita, non può non procurarsi nelle quantità sufficienti per poterne fare, attraverso un sapiente e paziente lavoro dell’intelligenza razionale ed affettiva accompagnata dal lievito della fede, un pane buono da mangiare che
possa costituire un sano nutrimento per tutti quanti sono alla ricerca di una via per gustare la bontà e godere della bellezza dell’avvenimento della vita.

Queste brevi riflessioni su alcune parole dell’etica da riscoprire andrebbero accolte, cari e care lettori e lettrici, come una possibile grammatica essenziale mediante la quale poter e dover affrontare insieme vecchie e nuove e quanto mai urgenti questioni bioetiche dell’oggi con un linguaggio rivisitato per una prassi rinnovata.

Cerchiamo, dunque, insieme, di approntare una mappa per itinerari antichi e sempre nuovi, sapendoci e sentendoci chiamati ad un compito, o meglio ad una missione comune, che oggi più che mai si presenta con forza nei termini di una sfida epocale: come tutelare e promuovere in senso integrale il dono della vita umana in un mondo, questo mondo
dell’odierno presente in attesa di dover svoltare pagina?

Ci auspichiamo che la periodica pubblicazione dei preannunciati articoli diventi occasione effettiva per dibattiti e confronti con voi lettori e lettrici sulle varie problematiche che emergeranno dalle provocazioni suscitate dalle parole bioetiche chiave via via presentate. La prima parola su cui bisogna prestare attenzione, l’ingrediente da cui ripartire, a nostro
avviso, non può che essere “CURA”.

A tal proposito riteniamo utile e suggestivo riportare di seguito la breve narrazione di un mito antico, ripreso dai pensatori etici più interessanti del Novecento, tra cui Martin Heidegger. Il racconto paradigmatico è tratto dalla raccolta di FABULAE dello scrittore latino Igino del I secolo d.C. Mentre Cura stava attraversando un fiume, vide del fango argilloso. Lo raccolse pensosa e cominciò a dargli forma. Mentre stava riflettendo sulla scultura plasmata, si avvicinò Giove. Cura gli chiese di dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri. Ma quando Cura pretese di imporre il suo nome alla creatura, Giove glielo proibì sostenendo che il nome doveva essere il suo, dato che gli aveva infuso la vita. Mentre Giove e Cura disputavano sul nome, intervenne anche Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché essa gli aveva dato il proprio corpo. I disputanti elessero Saturno, il tempo, a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente decisione: “tu Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive, lo custodisca. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è stato tratto da humus”.

Il significato esistenziale del racconto mitico è sufficientemente chiaro. Tanto da far risultare superfluo un intervento esplicativo del testo succitato. Per i credenti in Gesù Cristo, consegnatoci nel Quarto Vangelo come il Pane della Vita e la Luce del mondo, l’immagine dell’uomo, opera del lavoro amorevole di Cura ed essere vivente intimamente chiamato da Cura a prendersi cura di sé prendendosi cura dell’altro, ci rimanda alla tanto potente quanto fraintesa e dimenticata rappresentazione biblica della creatura umana quale oggetto delle cure premurose del Dio della Parola datrice della Vita e soggetto della cura amorevole e saggia del creato.

L’uomo, maschio e femmina, tanto umile e fragile (tratto dalla terra) quanto grande per la vocazione di custodire l’opera di Dio assumendosi il compito della cura del prossimo e di tutti gli altri viventi. Ci ritroviamo ad essere ospiti e compagni del misterioso dono ed evento dell’esistenza in quella grande casa comune che, nonostante tutto, non ha del tutto perso i segni dell’Eden che fu e che potrebbe ancora nuovamente essere, seppur mai come prima.

Cura vuol dire intraprendere un consapevole e doveroso processo di dismissione dell’atteggiamento del predatore/opportunista, delle condotte di sfruttamento utilitaristico e delle vesti di chi, di fronte all’appello del bisogno, al grido della malattia, alla richiesta d’aiuto del prossimo, ci richiama alla presunta giustezza della parsimonia e alla presunta necessità del calcolo delle convenienze, credendosi legittimato a contenere/ridurre la solidarietà effettiva invocando un discutibile e pericoloso senso di ragionevole responsabilità umana. Cura vuol dire voler e saper rinunciare ad accostarsi all’ospite e compagno in difficoltà e nel bisogno dall’alto verso il basso, imparando a non lasciarsi tentare dal sottile fascino
demoniaco dell’esercitare una qualche forma di pre-potenza nella relazione d’aiuto e sostegno.

Ci impegna, la Cura, a rieducarci a vincere nello scontro quotidiano con l’indifferenza sociale, la miopia spirituale e l’ipoacusia morale, frutto amaro della nostra paura e vergogna della precarietà della condizione umana e tentativo infecondo di esorcizzare lo sgomento della miserie e fragilità esistenziali colte come una potenza malefica assoluta che disinvoltamente mette sotto scacco le nostre inconfessate e superbe aspirazioni della volontà di potenza.

La Cura ci suggerisce, con una gentile sicurezza, di trovare il modo di far pace con la condizione della nostra finitezza creaturale; vuole insegnarci a far diventare la precarietà che accompagna il cammino di ogni uomo e donna un’occasione decisiva di incontro ed accoglienza reciproca; ci invita a sperimentare il paradosso della potenza creativa che nasce dall’esperienza del limite e della conseguente debolezza, memori dell’insegnamento delle parole ispirate dell’Apostolo Paolo nella 2 Cor 12, 10: “quando sono debole, è allora che sono forte”.
La vita di ciascuno di noi è come un tesoro prezioso contenuto in vasi di creta. Essa si consegna a noi come una fitta rete di legami mediante i quali sperimentiamo il fatto che siamo dipendenti gli uni dagli altri. Solo uomini e donne che riescono a porsi responsabilmente e umilmente la cruciale domanda “Come posso io/Come possiamo noi prendermi/prenderci cura di te/voi?” possono scoprire la bellezza fragile ma dirompente di quell’arte divinamente umana ed umanamente divina che è il ri-tessere insieme la trama di relazioni in-segnate e in-formate dal principio pedagogico della Cura.

Ritorniamo, dunque, a quella scuola di apprendistato per ri-acquistare, con la pazienza dell’agricoltore, la giusta e necessaria maestria delle mani da giardinieri di quell’Eden possibile che, tra i rovi e il ciarpame dell’indifferenza, della competizione e dell’incuria troppo diffusi, attende e spera faticosamente di potersi riprendere lo spazio dovuto.

Buona e scomoda prima riflessione. Attendiamo vostre risposte, commenti e domande.
Alla prossima parola bioetica chiave.

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