L’esserci quale condizione del farsi prossimo
Ad oltre un anno dalla diffusione del virus Sars-CoV-2 nel mondo urgenti questioni sembrano emergere, interrogandoci nel più profondo del nostro essere.
L’esperienza della solitudine alla quale sono sottoposte le persone malate si è, infatti, acuita durante la pandemia a causa delle misure restrittive messe in atto e resesi necessarie per il contenimento del contagio.
La perdita del contatto fisico è un sacrificio richiesto a ciascuno di noi, ma che ha dei risvolti drammatici soprattutto nella vita delle persone considerate più vulnerabili. Intesa come “suscettibilità di essere ferito” la vulnerabilità è compresa tra i quattro principi promossi dalla Dichiarazione di Barcellona del 1998 e, in quanto condizione che accomuna tutti i viventi, ci consegna inevitabilmente alla Cura: l’uomo forgiato da Cura è, come evidenzia Warren Thomas Reich, soggetto e oggetto di cura. A tal proposito occorre specificare che l’impegno di cura, al quale siamo tutti chiamati, richiede a chi è meno vulnerabile, e quindi più forte, l’assunzione di una responsabilità nei confronti di chi è più vulnerabile, e quindi più debole. Il momento storico che stiamo attraversando rende, tuttavia, faticosa la piena realizzazione di tale compito: basti pensare alle situazione di isolamento e conseguente sofferenza cui sono costrette sia le persone affette da Covid-19 che da patologie non Covid, le quali rimangono talvolta ospedalizzate per un lungo periodo, senza la possibilità di ricevere le visite da parte di una o più persone care. Critica risulta essere anche la situazione di coloro che vivono nelle RSA, nelle RSD, nelle Case di Riposo o, ancora, negli Hospice.
Si rende utile, perciò, richiamare alla memoria il doppio significato di “cura” ̶ cure, cioè la cura medica, e care, cioè un attento prendersi cura della persona del paziente ̶ così da mettere in risalto come l’importanza dell’integrazione tra la dimensione terapeutica e quella relazionale sia insita nel concetto stesso di “cura”.
Approssimarsi ai propri cari nel corso della loro malattia costituisce parte integrante e fondamentale della cura, specie se il malato si trova in una condizione di terminalità. Tuttavia, nell’attuale situazione emergenziale, il muro che isola i morenti risulta essere invalicabile. I familiari dei pazienti in stato di bisogno sono, infatti, costretti a farsi da parte in quanto i reparti delle strutture ospedaliere, ad esempio, sono inaccessibili nella maggioranza dei casi.
Rispondere positivamente ai bisogni di natura psichica, spirituale e sociale dei malati significa “sposare” un modello di cura globale e relazionale, che sia espressione di una concezione olistica della medicina, la quale intende integrare il to cure al to care.
In un’ottica in cui la vicinanza fisica ai pazienti costituisce parte integrante della presa in carico degli stessi, occorrerebbe, quindi, rivedere i modelli organizzativi delle strutture ospedaliere, così da poter garantire, pur con le dovute precauzioni, la presenza accanto al malato di almeno un familiare, o di una persona cara.
L’invito a “vegliare” che Gesù rivolge ai suoi discepoli non è forse, semplicemente, un invito ad “esserci” che ciascuno di noi deve fare proprio? E accoglierlo non significa, forse, accompagnare il paziente malato nel suo percorso di sofferenza, coltivando una presenza costante e discreta, fatta di ascolto e premure nei suoi riguardi?
di Marzia Torre
1 commento
Questo articolo mi ha fatto venire i brividi
Bisogna ” Esserci” ed accompagnare il paziente malato , nel suo percorso di sofferenza. Brava