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Farsi Elemosina come aver cura

da Giovanni Peligra
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Vivere la Quaresima “come percorso di conversione, preghiera e condivisione dei nostri beni” in modo da “rivisitare, nella nostra memoria comunitaria e personale, la fede che viene da Cristo presente e vivo, la speranza animata dal soffio dello Spirito e l’amore la cui fonte inesauribile è il cuore misericordioso del Padre”. E’ questo l’appello lanciato da Papa Francesco nel tradizionale Messaggio per la Quaresima che quest’anno ha come tema: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme…” (Mt 20,18).

Nel testo il Pontefice ricorda che la Quaresima è “un tempo di conversione” e che il digiuno, la preghiera e l’elemosina, così “come vengono presentati da Gesù nella sua predicazione”, sono “le condizioni e l’espressione della nostra conversione”. Infatti “la via della povertà e della privazione (il digiuno), lo sguardo e i gesti d’amore per l’uomo ferito (l’elemosina) e il dialogo filiale con il Padre (la preghiera) ci permettono di incarnare una fede sincera, una speranza viva e una carità operosa”.

E’ innanzitutto “un tempo per credere”, ovvero “per ricevere Dio nella nostra vita e consentirgli di ‘prendere dimora’ presso di noi”. L’ennesima occasione propizia (kairòs) per rinnovare il dono della fede che illumina e salva, reimparando a credere autenticamente, ricominciando l’apprendistato del saper dare e saper ricevere fiducia sincera.

Nell’articolo precedente sul senso e sul valore del digiuno quaresimale siamo stati accompagnati nel riflettere sul digiunare quale cammino consapevole di liberazione della nostra esistenza da quanto la ingombra, anche dalla saturazione di informazioni (vere o false) e prodotti di consumo, per aprire le porte del nostro cuore a Colui che viene a noi povero di tutto, ma ‘pieno di grazia e di verità’ (Gv 1,14): il Figlio del Dio Salvatore.

Nel presente articolo, invece, poniamo la nostra attenzione sul significato da poter dare al fare elemosina come ad uno dei tre cuori che spingono quel movimento unico di riscoperta e rigenerazione che ogni Quaresima ci invita e ci permette di rifare.

L’ascesa quaresimale al Golgotha della Croce e della Risurrezione si offre al nostro sguardo credente come un tempo in cui non può non risuonare al nostro orecchio la chiamata a prendere sul serio il compito della giustizia. Come non sentire e accogliere l’appello discreto, ma insistente, alla carità che, “vissuta sulle orme di Cristo, nell’attenzione e nella compassione verso ciascuno”, rimane “la più alta espressione della nostra fede e della nostra speranza”. Una carità che “si rallegra nel veder crescere l’altro”, e che quindi “soffre quando l’altro si trova nell’angoscia: solo, malato, senzatetto, disprezzato, nel bisogno…”. Una carità che oggi “vuol dire prendersi cura di chi si trova in condizioni di sofferenza, abbandono, solitudine o forte disagio a causa della pandemia di Covid-19”.

Fare elemosina non vuol di certo dire privarsi di ciò che avanza per darlo al bisognoso. L’elemosina quaresimale non è il superfluo che generosamente si mette a disposizione dell’indigente. Sono gesti, anch’essi importanti, ma superficiali, poiché si possono configurare più come una corretta e giusta pratica di lotta allo spreco. Grazie ad essi ci possiamo magari, per qualche tempo, sentire giusti e “a posto”, dato che in qualche modo non abbiamo voltato le spalle al prossimo in difficoltà: non siamo stati a guardare o non abbiamo fatto finta di non sapere, qualcosa abbiamo pur sempre fatto per l’altro. E così il cuore non viene commosso, il grido del povero non trova eco: avviene sì un contatto, ma non nasce una relazione. Facciamo elemosina senza comprometterci, mantenendo la “distanza di sicurezza” dal povero in cui non siamo disposti o non riusciamo a riconoscere un/a compagno/a fraterno/a: si cerca così di difendere la serenità delle nostre vite e la tranquillità della nostra coscienza, praticando una sorta di massimalismo evangelico alla rovescia.

“Non posso farmi carico dei problemi altrui”, “Bastano e avanzano i nostri problemi”, “Non possiamo e non dobbiamo salvare noi il mondo”: la lista potrebbe continuarla ciascuno di noi con tante altre espressioni analoghe che tradiscono spesso, oltre ad un legittimo senso di impotenza di fronte a certe situazioni di disagio e bisogno, un tentativo di autogiustificazione di non poche omissioni personali e collettive.

La precarietà e la fragilità del povero spesso disturba e perturba le nostre esistenze che si credono al riparo e sicure, baciate come sono dalla fortuna o buona sorte, grazie a Dio. Anche se ci si approssima a loro, il cuore si mantiene alla larga. Si prova anche un certo gradevole sollievo alla presenza dell’indigente, il sollievo di chi si crede scampato dal pericolo. Si fa esperienza anche di quel piacere che proviene dal fatto di poterli guardare paternalisticamente dall’alto verso il basso, il piacere del provare pietà sentendosi buoni nel poter donare loro ciò che sopravanza coi nostri gesti cordiali. Operazioni che avvengono sempre, repetita iuvant, a distanza di sicurezza.
Il Vangelo della giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei indica, invece, un altro sentiero da percorrere, se si vuole davvero seguire il Cristo povero e giusto Servo nel suo cammino pasquale verso Gerusalemme. Alla scuola del Maestro così umanamente divino e così divinamente umano, fare elemosina non può che tradursi con il farsi elemosina di colui o colei che vuol davvero imparare ad essere autentico/a discepolo/a.

Nella vulnerabilità del povero noi scorgiamo la presenza del Figlio di Dio. L’indigente è riconosciuto come un fratello, e i suoi bisogni provocano la nostra responsabilità. La sua fragilità diventa occasione propizia di incontro da cui può nascere una relazione. La precarietà del prossimo mi richiama alla mia precarietà, condizione comune agli uomini e alle donne di ogni tempo e luogo. Parte, dunque, un moto dalle viscere, che fa commuovere il cuore. L’attenzione si rivolge al grido, spesso soffocato o silente, dell’altro. Cambia lo sguardo sul prossimo, su sé stessi e sul mondo. Tendiamo le mani, pieghiamo le ginocchia. Ci riscopriamo e ritroviamo tutti e ciascuno/a bisognosi dell’amore che riconosce, accoglie, vivifica e soccorre. Ecco che allora vogliamo e non possiamo che farci elemosina noi stessi, con le nostre vite disposte ad intrecciarsi a quelle vite scomode, difficili e fragili. Tanti problemi non saranno risolti, le sofferenze continueranno ad esserci, le ingiustizie e il disagio non spariranno. Ma le solitudini troveranno compagnia, le ferite verranno lenite e il peso delle difficoltà da molte spalle sarà portato. I nostri volti si umanizzeranno alla maniera del Cristo delle Beatitudini, e il mondo, pur con le sue contraddizioni, diventerà una terra più ospitale. E le distanze col Regno della giustizia e della pace si accorceranno.

Come ci ricorda papa Francesco in Fratelli tutti, “a partire dall’amore sociale è possibile progredire verso una civiltà dell’amore alla quale tutti possiamo sentirci chiamati”. Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, riusciremo a cogliere la dignità dell’altro, i poveri saranno riconosciuti e apprezzati nella loro dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società.

La carità, insomma, “è dono che dà senso alla nostra vita e grazie al quale consideriamo chi versa nella privazione quale membro della nostra stessa famiglia, amico, fratello”. Infatti “il poco, se condiviso con amore, non finisce mai, ma si trasforma in riserva di vita e di felicità. Così avvenne “per i pani che Gesù benedice, spezza e dà ai discepoli da distribuire alla folla”. Così avviene “per la nostra elemosina, piccola o grande che sia, offerta con gioia e semplicità”.
Farsi elemosina diventa, perciò, l’inizio e l’esito dell’apprendistato evangelico dell’aver cura della vita dell’altro che incrocia la nostra strada verso il Regno.

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